La critica ad un’opinione del Riccobono in tema di costituzione della servitù per ‘destinazione del padre di famiglia’, di cui lo studioso nega la classicità, ritenendola opera dei medievali, offre lo spunto all’a. per indagare sulla possibilità di cogliere, nelle fonti, elementi che consentano di riconsiderare il problema, nel quadro della configurazione generale dei limiti di ammissibilità di una costituzione tacita della servitù. L’a. muove così dalla constatazione che la dottrina avrebbe ragionato sulla classicità di un istituto, come la ‘destinazione del padre di famiglia’ che, in quanto tale, non è menzionato nelle fonti e, nel criticarne l’origine romana, avrebbe assunto un parametro di riferimento inesistente, finendo così per legittimarne l’esistenza astratta. Contestando la connotazione volontaristica di tale espressione, a cui è legata l’idea della definitività della determinazione volitiva, l’autore rileva come, pur essendo l’istituto estraneo al diritto romano, l’uso dell’espressione «destinare» appare funzionale alla costruzione di esso, già nella riflessione dei medievali, proprio per il significato che essa assume nella lingua latina, in cui destinare equivale, fondamentalmente, a dare una «constitutio» che, sul piano del diritto, sarebbe conseguenza non di una generica ed ipotetica voluntas, ma di un certum consilium. Dunque, l’adozione dell’espressione riposa su questo significato dell’espressione che, trasportato sul piano della giuridicizzazione della situazione di fatto, assume una decisa connotazione normativizzante, una sorta di «bestimmung», ovvero tanto di determinazione, quanto di vera e propria «norma». In forza di questo profilo ricostruttivo della terminologia viene proposta una lettura teorica in cui appare rimodellato l’elemento soggettivo e volontaristico e riconsiderato l’approccio oggettivo all’«apparenza» della servitù, come presupposto materiale di un riconoscimento giuridico che è ‘ordinamentale’. Infatti, per l’a., a determinare e «legittimare» il sorgere della servitù, è proprio l’apprezzamento che l'ordinamento giuridico fa della situazione di asservimento di fatto sussistente fra i due fondi, così come essa oggettivamente appare, indipendentemente dal valutarne la necessità o la semplice utilità per il fondo dominante. L’autore conclude così sottolineando come, in tali casi, la servitù si costituisca, appunto, «ipso iure».
Servitus «iure» imposita. 'Destinazione del padre di famiglia' e costituzione 'ipso iure' della servitù
RANDAZZO, SALVATORE
2002-01-01
Abstract
La critica ad un’opinione del Riccobono in tema di costituzione della servitù per ‘destinazione del padre di famiglia’, di cui lo studioso nega la classicità, ritenendola opera dei medievali, offre lo spunto all’a. per indagare sulla possibilità di cogliere, nelle fonti, elementi che consentano di riconsiderare il problema, nel quadro della configurazione generale dei limiti di ammissibilità di una costituzione tacita della servitù. L’a. muove così dalla constatazione che la dottrina avrebbe ragionato sulla classicità di un istituto, come la ‘destinazione del padre di famiglia’ che, in quanto tale, non è menzionato nelle fonti e, nel criticarne l’origine romana, avrebbe assunto un parametro di riferimento inesistente, finendo così per legittimarne l’esistenza astratta. Contestando la connotazione volontaristica di tale espressione, a cui è legata l’idea della definitività della determinazione volitiva, l’autore rileva come, pur essendo l’istituto estraneo al diritto romano, l’uso dell’espressione «destinare» appare funzionale alla costruzione di esso, già nella riflessione dei medievali, proprio per il significato che essa assume nella lingua latina, in cui destinare equivale, fondamentalmente, a dare una «constitutio» che, sul piano del diritto, sarebbe conseguenza non di una generica ed ipotetica voluntas, ma di un certum consilium. Dunque, l’adozione dell’espressione riposa su questo significato dell’espressione che, trasportato sul piano della giuridicizzazione della situazione di fatto, assume una decisa connotazione normativizzante, una sorta di «bestimmung», ovvero tanto di determinazione, quanto di vera e propria «norma». In forza di questo profilo ricostruttivo della terminologia viene proposta una lettura teorica in cui appare rimodellato l’elemento soggettivo e volontaristico e riconsiderato l’approccio oggettivo all’«apparenza» della servitù, come presupposto materiale di un riconoscimento giuridico che è ‘ordinamentale’. Infatti, per l’a., a determinare e «legittimare» il sorgere della servitù, è proprio l’apprezzamento che l'ordinamento giuridico fa della situazione di asservimento di fatto sussistente fra i due fondi, così come essa oggettivamente appare, indipendentemente dal valutarne la necessità o la semplice utilità per il fondo dominante. L’autore conclude così sottolineando come, in tali casi, la servitù si costituisca, appunto, «ipso iure».I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.